Duemila piccole imprese fanno un movimento. Sono tante infatti le aziende italiane finora coinvolte nelle reti di impresa. Secondo il registro Unioncamere a far data il 10 aprile erano stati formalizzati dal notaio 313 contratti di rete che avevano interessato un totale di 1.648 imprese. Ma è stima comune degli addetti ai lavori che altri contratti siano in dirittura d' arrivo, possano essere stipulati già dalla prossime settimane e di conseguenza la stima di 2 mila è più che plausibile. E comunque stiamo parlando delle imprese che hanno steso un vero e proprio contratto legale, se volessimo contare le reti di collaborazione stabili ma informali il numero salirebbe e di molto. La notizia è che i Piccoli hanno cominciato a mettersi assieme. Hanno rotto un tabù e hanno cominciato a capire che si può fare impresa anche in un altro modo, non solo da single. Le reti sono la proposta giusta perché non chiedono di rinunciare al protagonismo imprenditoriale, né di farsi da parte e lasciare il campo a manager esterni (come prevedevano progetti avanzati in passato dalla stessa Confindustria). Sono una via dolce all' aggregazione e alla crescita dimensionale e comunque hanno permesso di superare quella che il garante delle piccole e medie imprese Giuseppe Tripoli chiama «la storica visione isolazionista del piccolo imprenditore». Laddove la formula delle classiche fusioni continua a non convincere artigiani e commercianti perché di due imprenditori ne rimane in gioco solo uno, le reti ce l' hanno fatta. Le tipologie di contratto sono le più diverse. C' è, ad esempio, la rete verticale come nel caso dell' Esaote (biomedicale) dove la società capofila ha stretto in un contratto i suoi fornitori con l' obiettivo di consolidare la filiera, responsabilizzarla e coinvolgerla in una forma di partenariato. Qualcosa del genere ha fatto la Gucci che ha favorito la nascita di una rete di imprese fornitrici di pelletteria senza farne parte direttamente ma con l' intento di renderle più strutturate e più attente al raggiungimento degli standard qualitativi necessari alle sue produzioni d' eccellenza. Del tutto differente è invece il caso della bolognese Racebo, una rete au pair tra aziende della componentistica per motociclette. Ognuna è specializzata in una nicchia ma soffriva di scarsa visibilità e basso potere di negoziazione. Si sono messe assieme, possono andare con qualche orgoglio al Motorshow e scambiarsi tra di loro le informazioni necessarie per fidelizzare la clientela. Altro caso di scuola è quello di 33 aziende oil & gas della Basilicata, piccole imprese fornitrici dei grandi gruppi petroliferi come Eni e Total che estraggono in zona. Unendosi in Rete Log i Piccoli lucani che assicurano una serie di servizi accessori hanno potuto integrarsi e presentare ai loro committenti un' offerta più strutturata. Quelle ricordate però sono alcune delle tipologie possibili. La Confindustria nazionale, per seguire/promuovere il fenomeno e catalogare le novità, ha costituito un' apposita agenzia guidata dal vicepresidente Aldo Bonomi e affidata a Fulvio D' Alvia. Le cinque organizzazioni che hanno dato vita a Rete Imprese Italia (l' assonanza lessicale non è casuale) non si sono date (ancora) una vera e propria struttura nazionale e affidano la promozione ai territori. Di particolare rilievo è l' esperienza di Lecco con i «Men at work», un progetto nato in un ristorante e che ha coinvolto 23 imprese prevalentemente meccaniche, alcune concorrenti tra loro, che hanno saputo collaborare per aprirsi nuovi mercati. Commenta D' Alvia: «Quando si va dal notaio formalmente si stende un contratto di aggregazione organizzativa ma di fatto si intraprende un percorso per diventare più moderni e più competitivi». Non è un caso, infatti, che il contratto di rete preveda la stesura di un business plan e quindi obblighi i contraenti a programmare azioni e obiettivi della filiera. Per limitarsi a segnalare i casi più singolari va ricordata la rete creata a Verona da 18 piccole aziende con meno di 10 dipendenti nel campo della trasformazione dei funghi in Veneto, Lombardia e Trentino e che coltivano l' ambizione di conservare la leadership italiana in questa particolare nicchia dell' agroalimentare. Un caso altrettanto interessante è «Baco» nato a Bologna per iniziativa di Unindustria. Quattro aziende della riabilitazione medica e dell' ortopedia hanno formalizzato una rete che mette assieme mille addetti e ha un obiettivo impensabile: conquistare, grazie a un accordo raggiunto con la Federazione cinese dei disabili, il mercato della disabilità che nel Paese di Mao conta numeri monstre (circa 83 milioni di persone interessate). Commenta Tripoli: «Tutti questi casi dimostrano la forza della cooperazione tra imprese. Solo unendosi gli imprenditori coinvolti possono porsi degli obiettivi che altrimenti sarebbero irraggiungibili. Quindi siamo di fronte a un fenomeno culturalmente nuovo ma che ha già solidi risvolti economici». Dal punto di vista delle politiche industriali va ricordato come nella manovra del 2010, conosciuta più per i tagli che per le misure pro-crescita, l' allora ministro Giulio Tremonti avesse insistito per inserire una posta pluriennale di 48 milioni di euro destinata proprio a incentivare le reti defiscalizzando gli utili reinvestiti. Per poterne usufruire, le aziende devono sottoscrivere un contratto di rete, devono chiudere il bilancio in utile e sono esentate dal pagamento delle tasse solo sui profitti accantonati. Di quelle risorse del 2010 sono ancora rimasti da erogare fondi residui per 14 milioni nell' anno in corso e altrettanti per il 2013. Qualcosa del genere stanno ora facendo Regioni - come la Lombardia - che nei bandi di gara prevedono incentivi per le start up. «Ma al di là delle risorse stanziate - osserva D' Alvia della Confindustria - la norma del 2010 è servita ad accendere i riflettori e attirare l' attenzione delle imprese».
Fonte
Corriere della Sera