sabato 21 maggio 2011

L’ultima fermata dell’esordiente Sara Calculli

POLICORO - Lev Tolstoy, in una delle sue bellissime Lettere, scriveva: “Lo scopo dell'arte non è quello di risolvere i problemi, ma di costringere la gente ad amare la vita. Se mi dicessero che posso scrivere un libro in cui mi sarà dato di dimostrare per vero il mio punto di vista su tutti i problemi sociali, non perderei un'ora per un'opera del genere. Ma se mi dicessero che quello che scrivo sarà letto tra vent'anni da quelli che ora sono bambini, e che essi rideranno, piangeranno e s'innamoreranno della vita sulle mie pagine, allora dedicherei a quest'opera tutte le mie forze”. Così Tolstoy andava al cuore del problema della “buona letteratura”. Se l'arte dello scrivere debba farsi di concetti, pensieri, idee. O di fatti, storie, vita. Pur immaginate, ma vere, di carne. Difficile che il pericolo dell'ideologia e dell'astrazione possa corrersi ad appena quattordici anni. Tanti ne aveva la lucana Sara Calculli, ora ventenne universitaria, quando scrisse il romanzo "L'ultima fermata", edito dalla Palomar di Bari, e presentato nella biblioteca “Massimo Rinaldi” di Policoro. E' forse per questo che la lettura risulta fresca, fluida, “nature”. Non ha pretese di insegnamento, non ha morali. Semplicemente, come voleva lo scrittore russo, fa amare una vita. Che scorre, fluttua. E il bello è che questo cambiare non è mai temuto, ma assecondato, amorevolmente compreso. Ne emerge una protagonista inquieta e sfuggente, la piccola Giulia, con cui l'autrice si scopre a guardare drammi, amori, sorprese, stupori di un'età bellissima, spalancata al mondo. O meglio, si scopriva. Perché l'autrice, rileggendo il suo “testo”(mai pubblicato) a distanza di 6 anni, si è ritrovata addosso uno sguardo nuovo. Gli ultimi capitoli sono un nuovo finale riscritto oggi, con cui l'autrice ha voluto concludere l'opera per dare forma e fiato al nuovo sguardo sulle cose. Non un finale aperto - scrive lei – ma "ri-aperto". Lucidità è, forse, la parola che esprime meglio i tratti di questa postilla finale. La “nuova Giulia” si ritrova meno radicale, più galleggiante, più leggera. Nell'ultima (e nuova) parte, ogni possibile colpo di scena accennato appare quasi volutamente frenato, strozzato e ricondotto a una ricercata serenità, una maggiore leggerezza. Una lucidità, appunto. “L'ultima fermata – scrive lei stessa - non può essere un paese o una metropoli, bensì la maturità, la consapevolezza che si può scappare da tutti e tutto, ma non dalla propria coscienza”. Eppure, questa nuova adulta si ri-sorprende di fronte a quello stesso sole che guardava da bambina, e che ancora sorge per lei. Quasi a testimoniarci quel qualcosa di bello, in noi, che non muore. Nonostante il tempo, le corazze, i drammi, quello che chiamiamo realismo da adulti, ma che non vince, vivaddio, quello che l'autrice chiama “rincorrere la felicità”. Il romanzo merita. Porta i segni dell'età di chi l'ha scritto, ma ha in sé anche i segni di una inconsueta maturità, di una rabbia ragionevole, di un'aspettativa
tutta umana che anche nelle cose piccole cerca quelle grandi. E' una giovinezza viva che dovremmo guardare con adorazione, non con superiorità. Soprattutto in questi tempi strani in cui, come ha scritto Alessandro D'Avenia, “tutti parlano dei giovani, ma quasi nessuno parla con i giovani”.

Fonte
Il Quotidiano della Basilicata

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