Deposito nucleare nazionale, ormai si parte. Ieri l’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ha licenziato un documento di 12 pagine che si attendeva da circa un quarto di secolo. Titolo: «Criteri per la localizzazione di un impianto di smaltimento superficiale di rifiuti radioattivi a bassa e media intensità». Di che cosa si tratta? Delle regole tecniche che dovranno essere prese in considerazione dalla Sogin (la società pubblica che gestisce lo smantellamento delle vecchie centrali) per delineare la mappa delle aree «potenzialmente idonee» entro i prossimi sette mesi. Ovvero i luoghi dove potrà essere sistemata una struttura adatta ad accogliere tutti i rifiuti radioattivi frutto della stagione nucleare italiana chiusa con il referendum del 1987.
Da Scanzano al deposito «di superficie»
I criteri, per la verità, erano attesi per la fine dell’anno scorso, ma poi c’è voluto ancora un po’ di tempo. Curioso che proprio lo scorso novembre ricorresse il decennale della rivolta di Scanzano Jonico, il paese sul litorale della Basilicata dove si sarebbe dovuto costruire il famigerato Deposito. Per la verità si trattava di un progetto diverso, visto che si parlava di un deposito di profondità a settecento metri in uno strato di salgemma impermeabile. Ora le cose sono un po’ cambiate: il Deposito sarà rigorosamente di superficie e accoglierà solo i rifiuti meno «pericolosi». Quelli a bassa e media intensità derivanti dallo smantellamento delle ex centrali nucleari e da attività di ricerca, industriali o ospedaliere. Più o meno tra 60 e 90 mila metri cubi di scorie, che «decadono» (ovvero dimezzano le loro emissioni radioattive) in un periodo tra una trentina e un centinaio di anni.
I rifiuti «pericolosi»
Beninteso: tra il 2019 e il 2025 i rifiuti a più alta intensità, quelli più delicati (di cosiddetta «terza categoria»), che sono stati mandati in Francia e in Gran Bretagna negli anni scorsi per essere «riprocessati» dovranno pur tornare in Italia. E se l’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Iaea) ci chiede a gran voce il deposito a bassa e media intensità, gli accordi con la Francia del 2006 prevedono che l’Italia provveda anche al sito per l’alta intensità.
Siti non idonei
Si vedrà, e l’obbligo resta. Di fatto però, con le 12 paginette dell’Ispra, ora il processo è partito. E se ne avvertiva il bisogno, visto che i rifiuti sono da tempo sparsi per tutti i «vecchi» siti nucleari. Luoghi sicuri ma di certo non idonei (lo scrive la stessa Ispra) per un deposito. Un esempio: se per una centrale nucleare la presenza abbondante di acqua è un criterio indispensabile (per il raffreddamento), lo stesso non si può dire per un impianto di smaltimento di rifiuti radioattivi, che dall’acqua deve invece essere isolato il più possibile.
Zone sismiche e centri abitati
Ma quali sono, quindi, i criteri che consentiranno di arrivare alla scelta del sito adatto? Nel suo documento l’Ispra lavora «al contrario», identificando almeno 15 aree di esclusione. In teoria, incrociandole tutte, si potrebbe arrivare a una mappa assai verosimile della zona che ospiterà la struttura. Le prime aree da escludere, ovviamente, sono quelle vulcaniche, attive o dormienti. Niente Deposito quindi nelle vicinanze dell’Etna, Stromboli, Colli Albani, Campi Flegrei, Ischia, Vesuvio, Lipari, Vulcano, Panarea, Isola Ferdinandea (proprio così) e Pantelleria. Neppure, altrettanto ovviamente, in aree sismiche o interessate a fenomeni di faglia; in quelle soggette a frane e inondazioni o in fasce fluviali o in depositi alluvionali preistorici; al di sopra di un altitudine di 700 metri (orografia complessa, piogge elevate) o con pendenze superiori al 10%. E ancora: sino alla distanza di 5 chilometri dalla costa; in zone carsiche o vicine a sorgenti o a Parchi nazionali o luoghi di interesse naturalistico; ad «adeguata distanza» dai centri abitati; ad almeno un chilometro da autostrade, strade statali o linee ferroviarie; assolutamente non nei pressi di attività industriali, dighe, aeroporti, poligoni militari; lontane da zone di sfruttamento minerario (gas e petrolio inclusi). Insomma, una lista lunga e articolata consegnata alla Sogin, che su di essa dovrà lavorare.
Otto anni per la costruzione, investimento tra 1,2 e 2,5 miliardi
E i tempi? Lunghi ma non troppo, soprattutto al netto di non prevedibili «ripercussioni» politiche, sociali (vedi «no Tav») e economico finanziarie. Secondo qualche stima ci vorranno almeno 4 anni per arrivare ad avere la cosiddetta «autorizzazione unica», la fase considerata la più delicata. Altrettanti per la progettazione esecutiva e la costruzione. In otto anni, peraltro, si arriverebbe al 2022, abbondantemente oltre al primo rientro di materiale dalla Francia (ma pagando si potrebbe ottenere qualche dilazione). Il consenso, insomma, pare una condizione imprescindibile, e Sogin e governo dovranno impegnarsi parecchio. Resta che il Deposito è un impegno da cui non ci si potrà svincolare facilmente. Uno dei maggiori progetti infrastrutturali futuri dell’Italia, con un investimento previsto tra 1,2 miliardi di euro e 2,5 miliardi se insieme ad esso si realizzerà anche il Parco tecnologico.
(Fonte Corriere della Sera)
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