Il decreto Sblocca-Italia sta creando una forte contrapposizione tra Governo, enti locali e larghe fatte della popolazione su un tema delicato, che non si presta a facili semplificazioni: è giusto dare libertà di trivellazione per produrre più petrolio e gas dal sottosuolo italiano ? E soprattutto, i rischi sono compensati da innegabili vantaggi ? Il tema è complicato da posizioni ideologiche e dati manipolati dalle parti che si confrontano al calor bianco, principalmente l'industria petrolifera e i vari movimenti ambientalisti. Cercare di far ordine, pertanto, rischia di provocare attacchi violenti dall'uno e dall'altro schieramento. Partiamo dal dire che, comunque si mettano le cose, l'Italia ha una dotazione molto modesta di idrocarburi. Allo stato delle attuali conoscenze, le uniche riserve di una certa consistenza si trovano nell'Alto Adriatico (gas naturale) e Basilicata (petrolio). Per il resto parliamo di piccoli giacimenti che in nessun modo potrebbero contribuire a rendere l'Italia meno dipendente dal petrolio e dal gas importati. Peraltro, dal punto di vista della sicurezza energetica, almeno nel caso del petrolio ha poco senso affannarsi nello sfruttamento di risorse interne poiché il mercato internazionale è aperto e ricco di fornitori e si può tranquillamente coprire il fabbisogno interno con importazioni. Diverso è il caso del gas, dove il mercato è in mano a pochi fornitori - Russia in testa - le cui forniture possono venire a mancare in momenti delicati. In questo caso, meglio sarebbe poter disporre di una riserva strategica del gas europeo, cioè di gas acquistato e stoccato in giacimenti esauriti e pronto per essere utilizzato in caso di emergenza. Si potrebbe obiettare: sì, ma per quanto limitato, lo sfruttamento di risorse interne crea posti di lavoro, investimenti e gettito fiscale. È vero, ma in modo più modesto di quanto sostenuto da alcune parti. Anzitutto, l'industria del petrolio non è ad alta intensità di lavoro. Si pensi, per esempio, che la Saudi Aramco, il gigante di stato saudita che controlla le intere riserve e produzioni di petrolio e gas dell'Arabia Saudita, impiega circa 50.000 persone (molte delle quali solo per motivi sociali) per gestire una capacità produttiva che, nel petrolio, è oltre sette volte il consumo italiano, mentre nel gas è superiore del 40% al fabbisogno nazionale. Inoltre, le possibili produzioni italiane cui dare mano libera sarebbero vantaggiose (aldilà degli aspetti fiscali) solo se si tengono sotto stretto controllo i costi, e quindi si limita l'assunzione di personale. Infine, gran parte dei siti produttivi si controllano con poche persone, in molti casi da postazioni remote. Anche nel caso di un via libera generalizzato alle trivelle, quindi, è alquanto dubbio che si possano creare i posti di lavoro di cui si è parlato (25.000): forse il numero sarebbe di poche migliaia. È vero, invece, che gli investimenti richiesti sono nell'ordine dei miliardi di euro. Ma è pur vero che quegli investimenti non hanno il potere di generare l'effetto di trascinamento proprio di altri settori dell'industria, poiché si concentrano nell'esplorazione e nello sviluppo di un giacimento. L'effetto trascinamento si registra solo quando si è di fronte a giganteschi progetti di sviluppo che richiedono di costruire dal niente enormi infrastrutture (ma anche abitazioni, servizi, e altro), come sta accadendo - per esempio - nel North Dakota (USA), epicentro della rivoluzione dello shale oil. Quanto al gettito fiscale, è indubbio che ci sarebbe, ma anch'esso di portata ridotta, considerati gli alti costi necessari a sostenere piccole attività di produzione. Hanno quindi ragione gli ambientalisti, che auspicano un presente e un futuro senza trivelle? No, per vari motivi. È vero che la transizione verso nuove forme di energia è già cominciata, ma per lungo tempo ancora non potremmo fare a meno di petrolio e gas. Anche in questo caso, molti dati utilizzati per presentare una via d'uscita rapida dalla nostra trappola energetica (petrolio e gas) vanno soppesati con attenzione. Leggo spesso, per esempio, dati che si riferiscono a percentuali strabilianti di energia ottenute da fonti rinnovabili. Il problema è che, nel fornire questi dati, non si specifica che riguardano sempre la sola energia elettrica, la quale rappresenta solo un terzo dell'energia primaria che consumiamo. Inoltre, gran parte di quell'energia rinnovabile proviene ancora da energia idroelettrica, una delle più antiche fonti di energia che può essere sfruttata quando si hanno ampie dotazioni di risorse idriche e condizioni geografiche che ne consentano l'impiego a fini energetici. E l'Italia sull'idroelettrico ha già fatto quasi tutto quello che poteva fare. Questo non vuol dire che solare e eolico siano da dimenticare: al contrario, nel mondo si stanno facendo passi da gigante per migliorarne le tecnologie e abbatterne i costi, e non c'è dubbio che, nel futuro, il solare in particolare avrà un ruolo importantissimo nell'offerta di energia. In ogni caso, le energie rinnovabili possono contribuire a soddisfare parte della domanda di elettricità, ma non sono ancora capaci di intaccare quella parte dei consumi legata ai trasporti, al riscaldamento e alle grandi attività industriali. Ciò detto, resta da rispondere alla domanda iniziale: trivellare si o no ? In linea generale no, quando la trivellazione ha per oggetto formazioni dalle prospettive modeste o incerte e rischia di diventare una sorta di accanimento terapeutico contro il sottosuolo e l'ambiente. Certamente no, se le attività di esplorazione e sviluppo non seguono le migliori pratiche ambientali e sia possibile un costante ed effettivo monitoraggio pubblico. Ma un atteggiamento di totale chiusura è comunque sbagliato. Là dove esistono prospettive importanti sarebbe un errore dire di no a sviluppare le risorse di idrocarburi. L'importante è che le leggi tutelino in modo ferreo lo sviluppo dei progetti e il loro impatto ambientale, con sanzioni pesantissime per chi cerca di eluderle ma senza ricorrere alla solita pletora di autorità burocratiche con poteri frammentati, ciascuna della quali capace di bloccare anche ciò che è lecito e utile.
In questi casi, si dovrebbe ripensare in modo radicale il sistema di royalty e
tasse in rapporto alle effettive prospettive di produzione (negli Stati Uniti,
per esempio, le royalty e tasse variano da stato e stato, spesso da giacimento
a giacimento), facendo in modo che una parte significativa di esse vada a
beneficiare quanti subiscono un danno economico dalle attività estrattive o che
questi ultimi possano beneficiare di un affitto per i diritti di superficie
pagato dalle compagnie petrolifere.
Leonardo Maugeri
Fonte il Solo 24 ore di Mercoledì 24 settembre
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